Gli amici nati a Milano mi dicono spesso che sono molto più milanese di loro. Un modo per prendermi in giro, per giocare sul fatto che, essendo siciliano, lo stereotipo imporrebbe una certa renitenza al lavoro e all’azione. Ovviamente #sischerza, come si dice su Twitter, ma è vero che a Milano mi sono ambientato in fretta. Sono arrivato dalla Sicilia quando avevo diciannove anni per iscrivermi all’università, poi ci sono rimasto: qui vivo, qui lavoro, qui ho messo su famiglia. A oggi sono molti più gli anni passati in Lombardia di quelli siciliani. E il merito, se un merito c’è nel riuscire ad ambientarsi e nel sentirsi a casa, è anche nelle caratteristiche della città di approdo. Perché Milano avrà pure un sacco di difetti, ma ti carica di energia e ti dà il senso della possibilità.
A Milano ho stretto legami con moltissime persone e ho lasciato che mi attecchisse addosso, quasi una seconda pelle, la milanesità, vale a dire quella voglia di fare e di costruire e di guardare al futuro con ottimismo. Un’attitudine che si è un po’ appannata negli ultimi anni, per tutti.
Milano, ammettiamolo, è innanzi tutto lavoro. Milano è la terra dell’opportunità, una città aperta, lo storico crocevia dove popolazioni diverse si sono incontrate, e continuano a incontrarsi, per costruire. “Milano a portata di mano, ti fa una domanda in tedesco e ti risponde in siciliano”, cantava Lucio Dalla nel 1979, giusto l’anno del mio arrivo in questa città.
Milano per me non è la macchietta del panetùn o di “Oh mia bela Madunina”, ma l’unica vera città europea d’Italia (“Milano vicino all’Europa”, per continuare a citare Dalla). E mentre, ad esempio, città come Roma, Bologna, Napoli e Firenze sembrano appartenere a chi ci è nato, Milano dà l’idea di essere di chi ci vive, ci lavora, ci costruisce. È vero che il cognome più diffuso è ancora Rossi, ma segue a ruota il cognome Hu, non propriamente meneghino… Sembra incomprensibile, a volte, che una città così cosmopolita si sia fatta abbagliare da un truce leghismo che pretende di fondare le sue basi su ridicole, inconsistenti e folkloristiche radici celtiche. La milanesità non è gretto localismo, è un’altra cosa. E potrei spacchettarla come progettualità, opportunità, voglia di fare e cultura del lavoro.
La milanesità è, da sempre e sopra ogni cosa, la certezza di un futuro migliore, per noi e per i nostri figli. Da tempo tutto questo si sta però perdendo. La crisi economica ha segnato il territorio a fuoco, sia a Milano sia nel resto della Lombardia. E la miseria dei modelli culturali che hanno imperato negli ultimi lustri ha fatto il resto. La politica poi ha svolto un ruolo nefasto: complice il quadro nazionale, a livello locale è mancata non solo la voglia e la capacità di costruzione di progettualità, ma anche la semplice buona amministrazione. Ci vuole ancora un grande impegno per ripartire. Giuliano Pisapia è stato eletto sindaco sotto il segno di una grande partecipazione e di una altrettanto grande gioia civile, con cortei per le strade di persone politicamente entusiaste, come non se ne vedevano da anni. Adesso sembra arrivato il momento di fare un ulteriore passo. C’è bisogno di rinnovamento, di facce nuove, di uno slancio che può arrivare dalla vittoria di Umberto Ambrosoli. C’è bisogno di tornare ad avere voglia di futuro.
All’inizio della mia vita milanese facevo un po’ fatica a cogliere il significato dell’espressione “portarsi avanti”. Poi l’ho capito. È una filosofia di vita, è il contrario del vivere alla giornata, è positività e desiderio di futuro, è voglia di progettare e costruire qualcosa di duraturo. Ho interiorizzato questo concetto e ho fatto mia questa filosofia. Ecco cosa vorrei: che Milano e la Lombardia riprendessero a “portarsi avanti”!