La questione morale nasce ai tempi di Enrico Berlinguer e del suo Pci. E passati gli anni possiamo dirlo in tutta tranquillità: come arma di battaglia politica paga molto poco, in Italia. Se no non ci saremmo sorbiti vent’anni di Berlusconi e quasi altrettanti di Formigoni. A cui si aggiunge oggi un candidato come Roberto Maroni, al vertice della Lega Nord anche ai tempi di Francesco Belsito e delle allegre spese della Famiglia Bossi.
Non sarebbe proponibile. Semplicemente, se la questione morale avesse la giusta presa gli elettori si sarebbero stretti nelle spalle, avrebbero girato lo sguardo in un’altra direzione e avrebbero lasciato queste persone fuori dai giochi. Perché il pallino, non ci si può nascondere, lo hanno in mano proprio gli elettori. Che poi siamo noi. Senza i nostri voti, in politica non si entra.
Però le battaglie vanno fatte perché sono giuste, non solo perché pagano in termini elettorali. E quella della questione morale è una battaglia sulla quale non si possono avere incertezze. A me sta a cuore non perché sono un nostalgico, ma appunto perché è uno scontro valido ancora oggi. Anche se non è popolare, se non porta voti e consensi.
Si dirà: e allora, Beppe Grillo? È vero, Grillo raccoglie consensi parlando dei ladri, dei politici che devono andare a casa. Ma tutto è mosso da un senso di rancore che mentre distrugge non sa proporre. Invece la questione morale della quale parlava Berlinguer era un’altra cosa. Non aveva quella componente “cattiva”, anche se forse comprensibile, che c’è oggi. Era un manuale ideale che indicava come deve comportarsi un politico. Rendeva chiaro come non si potessero coltivare interessi personali o degli amici. Ma occorresse pensare solo alla cosa pubblica, che fosse la Regione e l’intero Paese. Insomma: non regole imposte da fuori, ma un atteggiamento che doveva diventare sorgivo e partire da dentro.
Lo so, quando si dicono parole così tutti sono d’accordo. In teoria. Poi vediamo, nella pratica quotidiana, che tutto questo non è scontato. Tanti, troppi perseguono interessi personali, non sempre leciti. Tanti, troppi si occupano di tutelare consorterie e clientele. Occorre quindi esigere che quando uno si candida la sua unica preoccupazione riguardi cosa può fare per il Paese. E che la base di partenza sia il disinteresse per eventuali vantaggi personali. Non solo propri: occorre allo stesso modo che anche coloro che gli sono legati – famigliari, amici – vengano tenuti digiuni da favori.
È giunto il momento di riaffermare queste “banalità”. Di dire che vogliamo una Regione e un Paese diversi, dove chi fa politica non si propone come un affarista, dove il “familismo amorale” – e cioè la difesa del proprio clan, della propria famiglia – è un reperto del passato. Deve passare lo schema: una volta eletto porto avanti un impegno nelle Istituzioni, ma consapevole che la regola deve essere il ritorno, a fine mandato, al lavoro che facevo prima. Senza aver cercato nel frattempo quei privilegi che il ruolo potrebbe offrire.
Ripartiamo da queste “banalità” che garantiscono il ricambio. Ripartiamo da una concezione diversa della politica che unisca onestà e competenze. E probabilmente la Lombardia sarà un posto diverso, centrale per l’Italia, a sua volta un Paese diverso. Perché sarebbe auspicabile che destra e sinistra abbiano la stessa concezione dello Stato. E poi, su questa base comune, continuare a mantenere le loro differenze.